Il niente e il troppo, l’eccedere della forma o l’informità dell’eccesso, dimagrire fino a sparire o espandersi a dismisura. Nei disturbi alimentari non si tratta di una semplice questione di peso. Il cibo è l’oggetto che più di ogni altro rappresenta il bisogno, il prendersi cura, l’interesse per tenere in vita qualcuno. Pensiamo ad esempio a ciò che accade tra una madre e il figlio che viene allattato. È quanto può essere alla base di una relazione che diviene altro: ciò che chiede il bambino può essere altro, può essere l’amore per sé e per la propria particolarità. E cosa succede se per un motivo o per un altro, per quelle singolari circostanze che caratterizzano la vita di ognuno il dubbio, l’insicurezza, l’indifferenza, ecc. si insinuano in queste relazioni fondamentali con le proprie figure di riferimento. Può capitare che a risentirne sia proprio il rapporto con il cibo, con ciò che più di ogni altra cosa rappresenta l’oralità, la prima forma di contatto con il mondo esterno. È tramite la bocca ad esempio che i neonati esperiscono ciò che li circonda. Ma è anche un’altra la connessione con l’oralità: la bocca è ciò che ci permette di parlare assieme al nostro apparato fonetico ed è tramite la parola e la nostra voce che siamo capaci di chiedere, ma anche di rispondere a quanto ci viene chiesto. Non può essere dunque l’anoressia un rifiuto assoluto per affermare la propria esistenza, un pericoloso ricatto che nasconde una segreta domanda d’amore? e non può essere l’obesità l’incapacità di mettere un limite a quanto l’altro si ostina a dare senza sapersi contenere, l’accumulo di un troppo, di un peso che come sfondo può avere la difficoltà nell’affermazione della propria soggettività? Nel divorare, azione tipica dell’abbuffata bulimica non c’è forse la volontà di distruggere il cibo come fosse un modo per arrecare danno a una parte di sé per quella che può essere la reazione a una mancanza d’amore?
Si direbbe che come accade nel regno animale non c’è nulla di più naturale dell’alimentazione, ma per gli esseri umani non è così: il vivere in un mondo di linguaggio e di relazioni complica notevolmente anche quanto c’è di più intimo e personale, anche ciò che riguarda il rapporto con il proprio corpo e il suo sostentamento. Nell’anoressia è spesso palese il condizionamento degli ideali sociali circa l’immagine del corpo della donna e della sua necessaria magrezza (pensiamo alle ormai note questioni che riguardano la moda), nell’obesità, invece, osserviamo su scala ridotta e applicata al singolo la spinta al consumismo più sfrenato che così tanto caratterizza la nostra società.
Il disturbo può essere quindi una soluzione controproducente, una risposta ad un malessere ben più articolato. Volersene occupare può voler dire affidarsi ad un percorso psicoterapeutico che permetta di porsi le giuste domande e attraverso la parola approfondire e ricostruire tutte le articolazioni del proprio sintomo. È proprio la parola, il parlare di sé essendo ascoltati senza essere giudicati o influenzati che apre le possibilità di costruzione di una nuova vita, di un nuovo modo di essere.